Il pilone la Lanterna, lo stretto di Messina e Colapesce

Dimitri tra trasparenze, e movimento in un’estasi e armonia di colori

Nell’opera il pilone, la lanterna, lo stretto di Messina e colapesce

Il pilone

Dalla cima dei suoi duecentotrentatré metri di altezza (4 in più del grattacielo più alto d’Italia), svetta su Capo Peloro da quasi 65 anni, rappresentando uno dei simboli più rappresentativi di Messina e del suo Stretto. Eppure, non tutti conoscono la storia del Pilone di Torre Faro, progettato dalla Sae a partire dal 1951 e inaugurato il 15 maggio 1956 a più di tremila metri di distanza dal suo gemello calabro, situato sulla sommità della collina di Santa Trada, a 169 metri di altezza sul livello del mare.

Noto a tutti come u Piluni, ed alto esattamente 225 metri (ai quali vanno sommati gli otto della base), per decenni ha trasmesso e ricevuto energia elettrica dalla Sicilia al continente grazie a cavi conduttori d’acciaio posizionati a 25 metri di distanza l’uno dall’altro, che furono dismessi dal febbraio del 1992 (già nel 1985  era entrato in funzione il nuovo collegamento elettrico sottomarino). All’indomani della dismissione, il traliccio è stato sottoposto a una totale riverniciatura mentre dal 2006 è stato aperto al pubblico per un paio di stagioni: la visita richiedeva di salire una scala di 2.240 gradini per raggiungere la piattaforma più alta (di recente qualcuno lo ha scalato persino a mani nude…).

In attesa del prossimo restyling della struttura, a raccontare la genesi dei due tralicci gemelli sono due documentari d’epoca, che testimoniano con immagini e riprese d’archivio la realizzazione dei piloni e la complicatissima posa dei cavi.

La lanterna

Questa lanterna era, per i naviganti dello Stretto di Messina, un punto di riferimento per condurre in sicurezza la navigazione, in vista di una zona particolarmente insidiosa della costa per le forti correnti marine presenti.

La torre-faro di Capo Peloro è sempre stata infatti, anche per tali motivi, uno dei più importanti del Mediterraneo ed è fatta risalire al XII secolo, anche se l’estrema punta della Sicilia potrebbe essere stata sede di segnalazioni marittime anche in epoche più remote.

Grazie al materiale fornito dall’Architetto Giuseppe Aveni, dirigente della Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, possiamo pubblicare preziosi reperti storici in riferimento proprio a Capo Peloro:

Lo stretto di Messina

E’ un braccio di mare che separa l’Italia peninsulare (Calabria) ad est dall’isola di Sicilia e, più in generale, quest’ultima dall’Europa continentale ad ovest, collegando i mari Tirreno e Ionio e bagnando le città metropolitane di Reggio Calabria e Messina, con una larghezza minima di circa 3,14 km tra i comuni di Villa San Giovanni e di Messina.

Localmente chiamato u Strittu, noto nell’antichità come stretto di Scilla e Cariddi dal nome dei due mostri omonimi di Scilla e Cariddi che secondo le leggende funestavano la navigazione tra Calabria e Sicilia, in seguito fu noto come fretuum siculum e, in tempi più recenti, come faro di Messina, denominazione puramente geopolitica risalente al regno medievale di Sicilia.

Nel 1957 la rete elettrica di trasmissione siciliana fu collegata a quella continentale da un elettrodotto aereo che sovrappassava lo Stretto; benché ormai non più utilizzato per via del passaggio, nel 1992, a una più pratica soluzione con cavi elettrici sottomarini, le strutture di sostegno dell’opera sulle due sponde sono rimaste come esempio di archeologia industriale e note come piloni dello Stretto.

Lo Stretto, per gli aspetti morfologici, può essere rappresentato come un imbuto con la parte meno ampia verso nord, in corrispondenza della congiungente ideale capo Peloro (Sicilia) – Torre Cavallo (Calabria); verso sud, invece, questo imbuto si apre gradualmente fino al traverso di capo dell’Armi (Calabria). Il limite settentrionale è nettamente identificabile, mentre quello meridionale può avere un significato geografico (ad esempio la carta nautica n° 138 dell’Istituto idrografico della Marina si ferma poco prima di punta Pellaro in Calabria), o idrologico; quest’ultimo può essere considerato la linea ideale che congiunge capo Taormina (Sicilia) con capo d’Armi (Calabria). Come area idrologica, anche il confine settentrionale è ben più ampio di quello geografico e comprende l’area del mar Tirreno compresa tra capo Milazzo, l’arco delle isole Eolie e le coste del golfo di Gioia in Calabria (Figura 2).Fig. 1A: Lo stretto visto da Messina, presso “Dinnammare” (monti Peloritani); i colori mostrano chiaramente le differenti masse d’acqua presenti.

Per quanto si riferisce al profilo sottomarino dello stretto, esso può essere paragonato ad un monte, il cui culmine è la “sella” (lungo la congiungente Ganzirripunta Pezzo), i cui opposti versanti hanno pendenze decisamente differenti. Nel mar Tirreno, infatti, il fondo marino digrada lentamente fino a raggiungere i 1.000 m nell’area di Milazzo e, per trovare la batimetrica dei 2.000 m, si deve oltrepassare l’isola di Stromboli. Nella parte meridionale (mare Ionio), invece, il pendio è molto ripido ed a pochi chilometri dalla “sella” è possibile registrare la profondità di 500 m tra le città di Messina e Reggio, oltrepassare ampiamente i 1.200 m poco più a sud (punta Pellaro), per raggiungere i 2.000 m al centro della congiungente ideale capo Taormina – capo d’Armi.Fig. 2: Batimetria dell’area idrologica dello stretto di Messina

La minore ampiezza (3.150 metri nel punto più stretto) si riscontra lungo la congiungente Ganzirri-punta Pezzo cui corrisponde a livello del fondo una “sella” sottomarina ove si riscontrano le minori profondità (80–120 m). In questo tratto i fondali marini (Fig. 4) presentano un solco mediano irregolare, con profondità massima di 115 m, che divide una zona occidentale (in prossimità di Ganzirri) caratterizzata da profonde incisioni, da quella orientale di Punta Pezzo, più profonda e pianeggiante (Fig. 18).

Caratteristica del settore settentrionale dello stretto è l’ampia valle di Scilla, con una parte più profonda e ripida (circa 200 m). La valle comincia poi ad appiattirsi e ad essere meno acclive verso il mar Tirreno dove prende il nome di bacino di Palmi. Le pareti laterali della valle, profonde e scoscese, si elevano bruscamente conferendo alla sezione trasversale una forma ad “U”. Un’ampia ed irregolare depressione, meno incisa (valle di Messina), avente anch’essa sezione ad “U”, si riscontra nella parte meridionale. A profondità superiori ai 500 m, la valle di Messina si stringe divenendo più profonda e dando origine ad un ripido canyon sottomarino (canyon di Messina) che si protende fino alla piana batiale dello Ionio.

In aree marine lontane dallo stretto di Messina, il mar Tirreno è mediamente più freddo e meno salato del mar Ionio, mentre, lungo tutta la costa siciliana compresa tra capo Taormina e Messina, i fenomeni di upwelling, portando in superficie acque di profondità, determinano che le acque ioniche presenti negli strati superficiali dello stretto siano sensibilmente più fredde di quelle riscontrabili alla medesima quota in altre zone del mar Ionio. Per le acque di superficie estive le temperature nello stretto sono mediamente più basse di 4 – 10 °C.

Delle masse d’acqua del mar Mediterraneo (superficiali, levantine intermedie, profonde), e quindi del mar Ionio e del mar Tirreno, soltanto quelle superficiali e levantine intermedie sembrano entrare in gioco nello stretto di Messina, come confermato dalle misure di salinità nell’arco di 24 ore effettuate davanti a Ganzirri (figura 11).Fig. 11: Distribuzione delle differenti acque nell’arco di 24 ore di fronte a Ganzirri (Sicilia)

Dall’esame di questi dati si può osservare che acque sottostanti la Levantine Intermediate Water (LIW) non raggiungono lo stretto, infatti l’isoalina di 38,7 e sporadici valori di 38,8 indicano nella LIW il confine inferiore delle acque che possono rimontare dal mar Ionio. È possibile affermare, inoltre, che dal mar Tirreno provengono esclusivamente acque superficiali.

Secondo Defant (1940), solo metà dell’acqua ionica risalita nello stretto passerebbe nel mar Tirreno ove, in accordo ai dati di Vercelli e Picotti (1926), sarebbe condizionata nel suo movimento (orizzontale verso NW e verticale verso il fondo) sia dalla maggiore densità, rispetto a quella delle acque tirreniche, sia dalle stesse acque che da tale bacino fluiscono a sud parallelamente alla costa calabrese sia, infine, da un vortice stabile a rotazione ciclonica centrato a nord dell’ingresso settentrionale dello stretto.Fig. 12: stretto di Messina: distribuzione dei principali parametri chimici e biologici come valore medio integrato (media ponderata) sulla colonna d’acqua di 100 m

Il transito nello stretto di Messina delle diverse masse d’acqua, in funzione del regime di corrente, determina quindi l’incontro di acque tra di loro non immediatamente miscibili. Poiché solo una parte delle acque che si presentano sulla sella riesce a passare nel bacino contiguo e di queste una parte cospicua, perdendo velocità, staziona ai confini dello stretto per ritornarvi nuovamente con il successivo flusso, è possibile riscontrare con frequenza corpi d’acqua che, cambiando bacino, vanno ad occupare quote diverse da quelle originarie in funzione di un nuovo equilibrio dinamico negli strati d’acqua del bacino ricevente.

Questo continuo spostamento e lento mescolamento di acque è un fattore ulteriore di vivificazione dell’area dello stretto di Messina. Infatti, i sali di azoto e fosforo trasportati negli strati superficiali dalle acque profonde ioniche non riescono ad essere utilizzati immediatamente dal fitoplancton nelle zone di grande turbolenza, mentre ciò può avvenire ai margini dello stretto, ove la velocità della corrente si riduce notevolmente.

Il modello semplificato risultante (figura 12) può essere così riassunto: arricchimento nell’area della “sella”; massimo di clorofilla e produzione di sostanza organica qualche chilometro a sud (punta Pellaro), degradazione e mineralizzazione della sostanza organica (prima prodotta a nord) nella parte più meridionale dello stretto (capo dell’Armi).

Le correnti di upwelling fanno sì che le acque dello stretto siano nettamente più ricche di plancton rispetto a quelle dei mari adiacenti, il che favorisce una maggiore diversità ittica.

Tralasciando gli aspetti mitologici, la cui influenza ha permeato per secoli la visione anche artistica dello stretto di Messina (Fig. 3), i primi studi di carattere scientifico sulle correnti dello stretto di Messina si devono a Ribaud, vice-console francese a Messina, che nel 1825 pubblica un compendio di quanto noto all’epoca su tale argomento. Le sue osservazioni hanno rappresentato un punto fermo per quasi un secolo. Da segnalare anche la pubblicazione nel 1882 di un “manuale pratico” molto dettagliato da parte di F. Longo, comandante di navi mercantili particolarmente esperto dello stretto.

Finalmente, a distanza di quasi un secolo dalle osservazioni di Ribaud, il particolare regime delle correnti dello stretto fu studiato per la prima volta con grande dettaglio scientifico mediante la raccolta sistematica di dati mirati a una conoscenza completa dei fenomeni, durante le campagne di studio della Nave Marsigli della Marina Militare, svolte durante gli anni 1922 e 1923 sotto la direzione del prof. Vercelli (fisico, direttore dell’Istituto geofisico di Trieste); furono indagate anche le caratteristiche fisico-chimiche di quelle acque grazie alle analisi condotte da Picotti (chimico dello stesso istituto).

Dall’insieme dei risultati raccolti vennero costruite le “Tavole di Marea” dello stretto, tuttora edite dall’Istituto idrografico della Marina (I.I.M. Pubbl. n° 3133), dalla cui lettura è possibile conoscere le previsioni della corrente (velocità e direzione) in due punti (punta Pezzo in Calabria e Ganzirri in Sicilia); è inoltre possibile calcolare, grazie a formule molto semplici, le previsioni di corrente in altri 9 punti.[2]

Nel corso degli anni sono state effettuate periodiche verifiche di tali misure, con strumenti sempre più sofisticati, che hanno di fatto confermato l’ottimo lavoro svolto nel 1922-1923. Anche le ulteriori elaborazioni di Defant (1940) hanno contribuito all’aumento delle nostre conoscenze ed alla migliore comprensione dei fenomeni dinamici dello stretto di Messina.

Nel 1980, al fine di valutare la possibilità di uno sfruttamento delle correnti dello stretto per la produzione di energia, è stata condotta dall’OGS (Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale) di Trieste una campagna di misure su lungo periodo per conto dell’ENEL, con il posizionamento in 9 punti dello stretto, nell’area di minore ampiezza compresa tra le congiungenti Ganzirri-Punta Pezzo e Capo Peloro-Scilla, di una serie di catene correntometriche con 3 moderni correntometri ciascuno.

Poesia di Maria Costa – Colapesce-

So matri lu chiamava: Colapisci!
sempri a mari, a mari, scura e brisci,
ciata ‘u sciroccu, zottiati sferra,
o Piscicola miu trasi ntera!
Iddu sciddicava comu anghidda
siguennu ‘u sò distinu, la sò stidda.
Annava fora, facia lagghi giri,
e Canzirri, ‘o Faru e Petri Niri.
Un ghionnu sò maistà ‘u vinni a sapiri,
e si pprisintau a iddu cù stu diri:

Iò sacciu chi si l’incantu da’ rivera
e di lu Faru potti la bannera,
scinni ‘o funnu a metri, passi e milia
e dimmi com’è cumposta la Sigilìa,
sè supra rocchi, massi o mammurina
e qual’è la posa di la tò Missina.
E Colapisci, figghiolu abbidienti
mpizzau ‘o funnu, rittu tempu nenti.
‘U Re facìa: chi beddu asimplari
e figghiu a Cariddi e non si po’ nigari.

Sulligitu nchianau Colapisci
comu murina chi so’ canni lisci,
dicennu: “maistà ‘a bedda Missina
vessu punenti pari chi ssi ‘ncrina.
Sù tri culonni cà tenunu mpedi,
una è rutta, una è sana e l’autra cedi.

Ma ‘u Re tistazza ‘i gemmanisi
‘u rimannau pi’ n’autri centu stisi.
Iddu ssummau e ci dissi: Maistà
è tutta focu ‘a basi dà cità.
‘U Re ‘llampau e ‘n ‘coppu i maretta
‘i sgarru ci sfilau la vigghetta.

Giovi, Nettunu, dissi a vuci china,
quantu fu latra sta ributtatina.
Oh Colapisci, scinni lupu ‘i mari
e vidi si mi la poi tu truvari!
Era cumprimentu dà rigina,
l’haiu a malaggurio e ruina.

E Colapisci, nuncenti, figghiu miu,
‘a facci sa fici ianca dù spirìu
dicennu: Maistà gran dignitari
mi raccumannu sulu ‘o Diu dù mari.
e tempu nenti fici a gira e vota
scutuliau a cuta e a lena sciota
tagghiau ‘i centru e centru a testa sutta
e si ‘ndirizzau pà culonna rutta.

Ciccava Colapisci ‘i tutti i lati
cu di mani russi Lazzariati,
ciccau comu potti ‘ntò funnali
ma i boddira ‘nchianavanu ‘ncanali.
‘U mari avia ‘a facci ‘i viddi ramu
e allura ‘u Re ci fici ‘stu richiamu:
Colapisci chi fai, dimurasti?
e a vint’una i cavaddi foru all’asti.

E Cola cecca e cecca ‘ntà lu strittu
‘st ‘aneddu fattu, ‘ntà l’anticu Agittu.
Sò matri, mischinedda ancora ‘u chiama
cà mani a janga e ‘ncori ‘na lama.
Ma Colapisci cecca e cicchirà
st’aneddu d’oru pi l’atennità.FacebookTwitterPinterestLinkedInEmailWhatsAppTelegramCopy Link

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