Laura Bosurgi

Le due strade di Lidia Monachino
La pittura della giovane artista, inizialmente ancorata agli schemi della figurazione oleografica, si è di recente dilata in spettri coloristici e immagini sfocate di un certo interesse pittorico, Le figure e gli oggetti sfumano in sapienti paesaggi tonali, avvolti da una nebbia leggera, iridescente, senza tempo né stagione.
“L’eco lontana di un canto, una voce di banniata, senza risonanza…né glorie, trasmesse attraverso i microfoni rossi degli ombrelloni, che si rincorrono sulle pietre laviche bagnate da riflessi di sole e di pioggia.
Il frastuono e la luce bianca disperdono le ultime foglie cadute da quell’albero abbattuto dal vento della “pulitura”.
E ancora qualche incosciente si ostina a colorare di gioia e di passione quel muro imbiancato da poco dalle spazze degli operatori ecologici.
E gli uccelli cacano sull’asfalto che si copre di fiori, subito estirpati dalle radici, per non crescere mai più, né moltiplicarsi.
C’è nell’aria l’odore del pesce fresco, appena pescato da coraggiosi naviganti, che sfidano ancora le regole della mattanza dettate dall’Unione Europea contro l’ardore del gusto e della bellezza, per una vita senza piacere, né incanto.
Ascolto, come sinfonia, un tintinnio di bimbi che giocano nel cortile di un condominio, e imbracciano persino una bicicletta, in fuga dall’ira dell’amministratore di turno.
C’è tanto amore per il cibo e la libidine dei sensi, colpiti da una raffica di mitra, e si diffonde il sangue di animali scannati, dei pomodori e delle ciliegie, su candidi panni di patate bollite nel sale di mare, come le sarde e le acciughe che risalgono la corrente dello stretto, nella loro inutile lotta contro la sorte e le reti del consumo.
C’è il bisogno antico di mangiare, di dissetarsi alla fonte d’acqua che nutre la terra e scorre sempre, nel fiume della vita, tra sponde irte di spine e…. di cemento.
La solitudine dell’uomo che osserva e comprende, senza partecipare al banchetto, alla comunione del pane, del sale e del vino, che non è succo d’uva, ma solo un’etichetta stampata, senza sapore, né storia.
Mi manca tanto il tuo sorriso rassicurante, massaia carica di spesa, che corri perché i tuoi pulcini ti chiamano e soffrono la fame, beccandosi gioiosi.
Il venditore ti chiama, vantando la sua merce e il suo cetriolo, lungo e duro, appena raccolto nella campagna bruciata dal sole.
Nell’aria c’è la festa degli alberi, che trattengono le foglie, pronte a morire al richiamo del vicino autunno.
Ma perché si comincia a gustare il cibo dopo che è avariato e puzza d’acido e di vermi!
Perché si gusta in pieno la vita e il ramo che ti sostiene solo dopo che la tua caduta si confonde con la terra che ti ha generato.
Quella donna che si fermò per ascoltare il richiamo della banniata, è rimasta impigliata nella rete del benessere e della “pulizia”, senza speranza, né gioia, la lingua sporca di polvere e di pianto.
Come in una favola, nei mercati di Lidia Monachino si intravede ancora il riflesso dei fiori rossi, del bianco odore delle cipolle e dell’aglio, il sedano verde e carnoso, l’odore intenso delle albicocche gialle e sfumate di rosso, l’azzurro lucido e bagnato delle squame di pesce, il sudore di una corsa nei campi, l’acceso fulgore di una macchia di sole, il richiamo delle tette degli ombrelloni che oscillano al vento, sostenuti da alte pertiche di legno, senza rami, né foglie.
Un cantastorie distratto racconta il dolore della baronessa di Carini, la disperazione e il canto di morte del cigno che l’ha pugnalata.
Qualche passante ascolta, si ferma, e sorride.
Il colore e la bellezza dei toni, la lussuria della scuola coloristica siciliana, si sviluppa e si espande in arcobaleni di luce, colmando il vuoto dei buchi neri, implosi nella civiltà mediterranea, quest’angolo di mare racchiuso nelle colonne di Gibilterra, sfidate da Ulisse.
C’è nella pittura di Lidia Monachino il piacere e il disagio del calore che appaga e distrugge il disegno e il profilo delle cose, gli effimeri oggetti dell’incanto, in uno spazio e un tempo svuotati dalla furia del vento, ma pieni d’aria, fluidi leggeri. L’immagine, non programmata s’inerpica dalle radici dell’anima, si arrampica, in alto, in voluttuose trasfigurazioni mistiche, eteree, senza masse nè vuoti. E’ la pittura del sublime ambiguo, fragile mistero dell’effimero che non si appaga mai.
Dimitri Salonia